IL SEGRETO...

La salute di Padre Sonne era venuta sempre meno... In

questi giorni, andando a visitarlo all’Ospedale, me ne sono

reso conto di persona: da una semplice operazione, tutto,

un po’ alla vola e inaspettatamente, per lui si è complicato,

rendendolo quasi uno straccio.

Abbiamo parlato... io, più che altro; lui, a fatica è riuscito

ad esprimersi, a causa della stanchezza e dei dolori;

quell’uomo stremato e dolorante, a fatica sono riuscito a

riconoscerlo come Padre Sonne... lui, con quel suo carattere

di uono discreto ed equilibrato, prudente, saggio e

paziente; qui, adesso, in quel letto, volgendosi ora di qua

e ora di là; impossibilitato, a causa del dolore atroce, ad

essere se stesso: in lui vedevo soltanto ora l’uomo sofferente

e crocifisso.

E in quell’occasione, era riuscito a dirmi, pur con fatica,

che quella sua esperienza che lo stava vagliando così

atrocemente era anche, secondo lui, una occasione per

riscoprire tante realtà fino ad allora ignorate o date per

scontate; ora, alla luce di quei momenti dove egli si immaginava

di fronte, ogni attimo, la possibilità di una morte

più vicina che mai, aveva riscoperto cose nuove ed impensate...

dell’uomo e di Dio. Sì: mi aveva fatto capire che,

nonostante il trauma profondo in cui si trovava, quella era

da considerare una grazia; lì, in quella stanza opaca e triste

sul retro dell’Ospedale, dove guardando dalla finestra

si vedeva soltanto il fumo dell’inceneritore e il muro di

fronte, lì dove gli altri pazienti accanto di giorno e di notte

sdoloravano e, spesso, bestemmiavano nel loro delirare, e

dove chi era in attesa del giorno della dimissione passava

il tempo a leggersi le riviste pornografiche, preparandosi

al ritorno nella vita dei piaceri... Lì, proprio lì in quella

situazione, lui aveva cominciato a vedere un uomo – se

stesso – e un Dio diversi... e più vicini che mai.

E sollevando le mani tremanti verso l’alto, ringraziava,

con un filo di voce, il suo Signore, che gli stava offrendo

tutta questa grazia; mentre io, a stento, trattenevo le lacrime

del pianto. Ora, in quella condizione, Padre Sonne non

poteva più occuparsi di quella mia vicenda, dei manoscritti

e di tutto il resto: il mio confidente e saggio amico, ora

era chiamato a confidarsi con se stesso e con Dio, attraverso

quella prova; il destino aveva voluto che egli ora

lasciasse tutte quante le sue occupazioni e attività, per

dedicarsi interamente a se stesso e a Lui.

E così, ho cercato di trovare attorno a me qualche

amico che continuasse l’aiuto saggio in queste mie situazioni;

certo, Padre Sonne avrebbe continuato ad aiutarmi

– come lui stesso mi aveva detto – anche attraverso la sua

prova, offrendola anche per me e per tutto; ma adesso, non

potevo più averlo accanto, per dialogare e per avere i suoi

preziosi consigli.

E così, trovai sulla mia strada come aiuto, quasi per una

coincidenza, Padre Peter. Trovandosi a poca distanza da

Typaries, potevo recarmi da lui con facilità; e poi, come

carattere, era riservato e molto saggio; ma ciò che ci fece

incontrare non fu soprattutto questo aspetto, ma la comune

passione per qualcosa di grande: entrambi, lo sentivo

ogni volta che lo incontravo, condividevamo una stessa

‘pazzia’: quella di lasciar andare le cose anche oltre gli

schemi e i confini della logica, al di là. E Padre Peter, oltre

che intelligente, riservato e saggio, era un artista: un pittore.

E ogni artista, si sa, ha in sé qualcosa di estroso, di strano,

di ‘pazzo’; ed era proprio questa sua sana pazzia che

io ammiravo in lui ogni volta, e in base alla quale potevo

essere certo di essere ascoltato e compreso.

Già: per affrontare quelle illogicità che mi si presentavano

in quelle mie vicende, occorreva proprio un tipo

come lui, uno che sapesse vedere anche ‘oltre’, e non solo

‘nelle’ situazioni. Ed infatti, Padre Peter non smentì le mie

attese: non sapeva neppure lui risolverle, quelle mie questioni

tanto assurde e folli; ma, con il suo modo di consigliarmi,

mi aiutava ad affrontare tutto quanto con la serenità.

In questi giorni lui sta esaminando il mio quinto

manoscritto; mi recherò da lui, fra non molto, per avere

consiglio e per sentire le sue impressioni, e vedere se sto

agendo in conformità al bene, alla verità.

Intanto, dai più diretti interessati alle vicende, da coloro

che nei miei scritti risaltano in negativo, stanno giungendo

le prime intimidazioni. Alcune sono le stesse che mi

erano giunte attraverso Padre Sonne: un giorno, si erano

rivolti a lui perché mi convincesse a far finire tutto quanto,

perché si evitasse lo scandalo; ma egli – lui stesso me

l’aveva riferito – aveva riposto che se le cose stavano procedendo

così non era affar suo, e che lui sulla mia vita non

aveva alcun potere di censura, tantomeno finchè non appariva

chiaro quali fossero i danni che io stavo arrecando

alle persone in questione.

Certo, umanamente le capisco quelle persone, divenute

i ‘personaggi scomodi’ a se stessi nei miei manoscritti; ma

non è altrimenti che così: appaiono per quelli che sono, in

quelle vicende inventate, che sono per loro più evidenti

della stessa realtà. E se in quell’evidenza ora stanno scoprendo

se stessi come persone sgradite, non so proprio che

farci, a questo punto: non ho nessuna intenzione di

nasconderle; non però che io le voglia accusare, no; ma

sono lì così, perché la realtà appaia in tutta quanta la sua

evidenza. Ritrattare io? Umanamente, anche per me sarebbe

più comodo, lo penso spesso; eviterei tutto: scandalo,

incomprensioni, accuse e minacce; ma, a questo punto,

intanto, non ho intenzione di tirarmi indietro: rischio tutto

quanto, e me stesso in prima fila.

Padre Noir, uno dei diretti interessati, si è fatto sentire...

non direttamente, no: da tanti anni non ci sentiamo

più. Si è recato dal Vescovo, e gli ha presentato in modo

tanto efficace le sue paure e le sue agitazioni, da trasmetterle

addirittura a Jean; e lui, a sua volta, le ha scaricate e

trasmesse a Padre David, quale primo e più diretto responsabile

al quale il Vescovo mi ha affidato.

E Padre David, nella sua saggezza e prudenza, mi ha

informato della situazione creatasi, dicendomi che Jean è

il più agitato di tutti, perché Padre Noir l’ha messo alle

strette, di fronte al possibile diffondersi del mio libro. Che

cosa gli abbia detto, non si sa, però l’effetto sul Vescovo

Jean si è notato bene: agitazione e paura, che è stato possibile

solo grazie a Padre David ridimensionare.

Dal dialogo tra Padre David e me, è emerso che le cose,

pur continuando, restano nell’obbedienza e nel rispetto

della Chiesa; e finora, nonostante che il rischio della

disobbedienza e della denigrazione sia sempre alle porte,

tutto è proceduto oltre, sì; ma mai contro la Chiesa.

Le minacce, anche ora, indirettamente o direttamente,

continuano da parte di alcuni degli interessati; ma non

faranno nulla, certamente, perché allora sarebbero costretti

ad esporsi, ancora di più, e ponendosi contro di me apertamente

finirebbero per creare essi stessi uno scandalo

contro di loro. E allora, in questo senso, mi sento abbastanza

al sicuro; e se in questa vicenda c’è il rischio, c’è

comunque anche la contro parte di sicurezza.

Chi invece nelle vicende è interessato in positivo, contribuendo

al risvolto benevolo di tutto quanto, o si è fatto

sentire – e ciò è stata occasione di dialogo e di approfondimento

di questioni profonde e personali, con un arricchimento

reciproco – oppure è rimasto nel silenzio, come

‘lei’. Lei, dalla mia partenza da Gourly, più né vista, né

sentita; né di lei ho più avuto occasione di parlare o di sentir

parlare. Sono sempre più fiducioso che saranno questi

scritti ad essere il tramite del nostro dialogo, un giorno;

non so quando, né come, ma lo spero e lo credo.

Typaries, qualche anno dopo, una notte di primavera...

Una nottata impossibile da vivere: piena di imprevedibili

dolori, che partendo dallo stomaco raggiungono sempre

più il capo, e si ripercuotono in tutto quanto il corpo.

Mi pare di essere sul punto di morire, di aver raggiunto il

tempo della fine di tutto quanto me stesso: la fine del

mondo, la mia fine; un dolore mai così faticosamente sopportato,

mai così intenso come in questi momenti.

Cosa sarà? – mi chiedo, mentre cerco di calmare quelle

fitte in tutti i modi: dalla camomilla, prima, poi al medicinale

calmante – Che sia...già, una colica?... Ma no, non

ho mangiato più di tanto la sera! Che sia allora la mia ulcera,

quella dei primi anni, scoppiata là a Gourly, e che adesso

si fa risentire?. Penso che no, non lo sia... Possibile che,

in un clima ormai resosi sereno, riemerga con tanta forza

tutto quanto?

Mi viene in mente che, non ricordo da chi l’ho sentito,

l’ulcera, con i suoi dolori e le sue conseguenze, ritorna,

anche là quando appare guarita esteriormente.

Sarà dunque questa...?. E poi, anche se la situazione ora

qui è serena, le conseguenze restano ancora... E questo

insopportabile dolore, intanto, mi fa quasi desiderare di

morire, di sparire dalla circolazione... io e tutta quanta la

vicenda; e sarebbe forse la soluzione, l’ideale: niente più

fastidi per me, e da parte mia verso nessuno.

Dopo gli esami all’Ospedale, fatti in questi giorni,

gastroscopia, raggi, sangue,... e gli altri più o meno noiosi

e dolorosi, ecco arrivare il responso: necessita un’operazione,

perché il mio stomaco non può più resistere così. E

così, da un giorno all’altro, senza quasi il tempo di rendermene

conto, ecco che mi ritrovo nella camera di una

Clinica; grazie anche all’interessamento da parte di uno

zio materno, che qui pare conosca qualcuno, mi hanno

assegnato una camera singola.

Mia madre: la mia prima assistente. Sembra quasi una

cosa impossibile: qualche giorno fa tutto sembrava così

calmo, sereno e normale; e dopo i dolori che si erano quietati,

ero pronto a riprendere la mia attività e il mio ministero...

Ora, invece, eccomi qua, con accanto mia madre,

in questa stanza dalla quale uscirò senza più un pezzo di

stomaco; mah!. Paura?... Beh, certo, un po’ sì; ma nemmeno

più di tanto. Fede?... Mah! Non so se chiamarla così è

adatto; più che altro, c’è un senso di giustizia, che dietro

tutto quanto, ora sembra emergere; sì: questa prova me la

merito, dopo tutto il caos che ho creato.

E adesso, in questi momenti, risento quella profezia

annunciatami da Padre Sonne, che si avvera in modo chiaro

e profondo: “Se tutto continua, anche solo così, con

queste cose scottanti, tu sarai il primo ad arderci sopra”.

Pregare?... Certo che dovrei, e molto; ma qui mi costa di

più, ed è estremamente difficile farlo; e anche il modo,

diventa profondamente più sofferto; ricordo allora ancora

quelle parole del saggio Padre Sonne, là all’Ospedale,

quando mi invitava a considerare anche in quelle situazioni

della sofferenza la presenza e la riscoperta della fede, in

un’altra ottica, impensata e certo più viva, nonostante

avesse la morte ormai lì vicina.

“Tutto bene! Ancora qualche giorno di convalescenza,

ora, e poi se ne tornerà a casa!” mi annuncia il dottore nel

suo giro di visita; l’operazione secondo lui, lì di fronte a

me, mentre sto sentendo la fitta fastidiosa della ferita, è

stata una delle meglio riuscite della sua carriera... “Ah,

senta...” dice poi a mia madre, prendendola in disparte, là

fuori. Quindici giorni dopo, mentre mi sto apprestando a

lasciare quella stanza, con il morale un po’ a terra, ma

desideroso di ricominciare la vita normale, ecco che riappare

il dottore; e mi illustra con parole gentili, ma anche

abbastanza chiare, che è subentrata una piccola complicazione;

e mentre io volgo lo sguardo a mia madre che,

mostrando di essere già stata informata della situazione,

trattiene a stento l’agitazione e la preoccupazione, il medico

continua: “Si tratta del fatto che ai polmoni abbiamo

riscontrato una macchiolina, niente di grave; occorre però

agire subito, prima che si dilati; comunque, ci vuole un

po’ di pazienza ancora...– e guardandomi con un sorriso,

proseguì – Certo, lei che è un sacerdote, è fortunato: è assistito

dal suo Dio, in queste cose: non ha certamente paura,

e questo l’aiuta a vivere queste situazioni non come gli altri

pazienti!”. “Ma... mi dica di che si tratta” tentai di chiedere,

ma subito egli mi interruppe: “Non vorrà predicare con

quel tono di voce? Si sarà certo accorto che c’è qualcosa

che non funziona a dovere nel suo parlare”. Mi schiarii la

voce ed emisi un: “Mmm” un po’ forzato, riconoscendo

che ciò che mi stava dicendo corrispondeva al vero.

“Comunque – concluse lui prima di uscire – l’abbiamo

sistemata fino ad oggi; e con l’aiuto del suo Dio, la sistemeremo

anche per il domani! Arrivederci, intanto!”.

Rimasi lì per un bel momento a fissare il volto paonazzo

di mia madre, che in quei momenti aveva cercato con

uno sforzo troppo evidente di nascondere tutto quanto.

Dopo un po’ le chiesi, con un filo di voce, quasi attento a

non sprecare quella forza che sentivo già preziosa e da

risparmiare in me: “Dimmi, mamma: un tumore?”. Le sue

lacrime confermarono il suo assenso.

In questo periodo tra la convalescenza, l’operazione al

polmone e chissà quale altra realtà inaspettata, cercavo di

non pensare a queste complicazioni, sia per non demoralizzarmi

ancor di più, chiudendomi nella morsa della

paura e del timore, sia per non dare ulteriormente peso alle

preoccupazioni dei miei familiari, di mia madre in special

modo, che essendo la mia più diretta assistente, in quei

giorni, rischiava di doversi sopportare un peso di tristezza

e di sconforto immeritati.

Il suo compito, fino ad oggi, era quello di essere l’assistente,

la crocerossina: prima, anni addietro, già con tutti i

problemi della famiglia e il marito e noi tre figli da accudire,

si era resa disponibile anche a seguire due nostre

anziane zie che, altrimenti, sarebbero finite al ricovero; e

dopo la loro morte, un’altra parente zitella, anziana e

destinata altrimenti pure lei alla casa di riposo, era stata

accolta in casa ad accrescere la famiglia, ed era diventata

come una sua figlia, al centro delle sue cure e delle attenzioni di noi tutti;
ed ora, in più, anche questa necessità di

essere presente, in questi momenti difficili, accanto a me.

Certo, di soddisfazioni, con il mio carattere, non gliene

davo granchè: oltre alle lamentele e ai miei prolungati

silenzi, interrotti soltanto dalle prove che facevo per la mia

voce, non riceveva molto altro da me, esteriormente.

Sì, dentro di me provavo un immenso desiderio di

esserle riconoscente, di dirle grazie, anche solo con un

sorriso ogni tanto e più del dovuto; ma la mia situazione

troppo provata e il mio carattere un po’ chiuso di quei

momenti, mi rendevano quasi indifferente di fronte alle

sue cure e alle sue incondizionate dedizioni.

C’era, di positivo, che ora, con queste mie complicazioni

nella salute fisica, accanto al mio letto si ricreava

quell’unità della famiglia che c’era da sempre, in effetti,

ma che, per le ragioni della distanza geografica, della

diversa vocazione e dei molteplici impegni di ognuno, era

finora stata un po’ trascurata; ora, invece, qui attorno al

mio letto si svolgevano i momento più profondi dell’essere

famiglia: i resoconti della giornata, l’arrivo dei miei,

l’incontro tra parenti e conoscenti.

Inoltre, l’amicizia materna, paterna e fraterna si approfondiva:

con mia madre, la prima infermiera, i rapporti,

nonostante le difficoltà specialmente i primi giorni, diventavano

più profondi: la confidenza, l’amicizia, la conoscenza

reciproca, crescevano in questa occasione.

E così, con mio padre: benché lui fosse un tipo più taciturno,

che parlava solo quando c’era necessità di farlo –

come diceva lui – la sua premura e sollecitudine non riusciva

a nasconderle, in quei momenti; e se da apparentemente

tentava di mostrarsi distaccato e superiore ai problemi

e alle emozioni del caso, forse era colui che ci era

dentro più degli altri; e, in questo, non per niente mi somigliava;

e con me condivideva i silenzi e le sofferenze, con

un senso di vicinanza oltre ogni mia aspettativa. E i miei

fratelli, che già da sempre consideravo migliori di me, sia

nel carattere che in ogni altro aspetto, in questa situazione

avevano posto ogni loro attività e interesse in second’ordine,

di fronte alla mia situazione, della quale si interessavano

anche più di una volta al giorno, direttamente, con la

loro presenza, con le loro battute e i discorsi impegnati,

con qualche sorpresa fatta di piccoli e sempre graditi doni;

o indirettamente, attraverso il sentirmi al telefono.

Nel periodo della convalescenza, cercando di pensare

sempre meno al fisico dolorante, ho cercato di distrarmi,

continuando a scrivere: sì, quella era un’attività che, piano

piano, ma continuava, e senza troppo affaticarmi.

Mi sono messo a scrivere, sul tavolino appoggiato qui

sul letto; poco per volta, e solo qualche riga ogni giorno,

con molte correzioni e rifaciture; però, ciò mi da un po’ di

serenità nel frattempo.

Mia madre, che è informata di tutto, ora, accanto a me

che scrivo, rilegge i miei manoscritti... e il libro... E mi

chiede delucidazioni là dove non capisce; spesse volte,

dopo che lei ha letto qualche pagina, si ferma e ne parliamo:

io, tra i sempre più frequenti schiarimenti della voce,

che, pur fievole, funziona ancora; e lei che continua, anche

da sola, a parlare, là dove vede che io non ce la faccio, e

mentre io nel frattempo la seguo con il sorriso.

Dopo l’operazione al polmone, tutto ormai pareva

sistemato; il tempo intanto trascorre tra lo scrivere, il dormire

un po’, qualche fastidio, e un po’ di parole... sempre

meno, in verità; e con la speranza... Un mattino, però,

risvegliandomi dopo i sogni turbolenti, mi accorgo che,

nonostante tutti i miei sforzi per farlo, il mio piede sinistro

non risponde più agli impulsi che io gli mando: le dita

restano immobili, mentre io le sto ad osservare, impietrito,

dal guanciale dove giace, ormai d’abitudine, il capo.

Dopo vari altri tentativi chiamo mia madre che lì seduta

accanto, tra il sonno della stanchezza e lo stordimento del

dormiveglia, è ancora e sempre attenta alla mia parola:

“Mamma...” basta questo ed è subito lì, ad ascoltare... quel

mio problema, ora.

Dopo alcuni giorni di esami, giunge uno strano responso:

pare, ma non si è sicuri, che sia stato intaccato un

nervo, forse per un’infezione del sangue...E cercheranno

di fare qualche tentativo per la riabilitazione; a quanto

pare, però, secondo il medico, tutto sta diventando progressivo;

in altre parole, mi si sta inaridendo tutto quanto

il corpo, iniziando da laggiù: da quel piede sinistro, fino

su, su all’inaridimento di tutto... alla morte!.

“Ma no, non fraintenda! – mi richiama il dottore – Io

parlo di possibilità estreme e di tempi lunghi; lei invece

riduce e chiede subito una riposta; le ripeto che, intanto,

con la cura e la riabilitazione, tutto può essere rallentato;

e che di preciso, non sappiamo che cosa sia questo virus”.

Già! Che bello! Non sapere che cos’è... Il mistero, che

mi fa pensare tutto di meglio; e intanto, posso immaginare

anche il peggio!

La disperazione è alle porte... Il silenzio diventa sempre

più la mia ombra... Nonostante la presenza premurosa

dei miei, di mia madre, tutto va peggiorando, a poco a

poco, in me: se riesco ad addormentarmi – per la stanchezza

– anche solo per qualche attimo, appena mi sveglio mi

assale il terrore di... Guardo giù, al piede sinistro, e mi

pare proprio che stia avanzando quella specie di paralisi

annunciata; e anche se ciò non avviene così in fretta, l’agitazione

porta avanti tutto quanto; poi, la prova del respiro,

e anche con quella mi convinco che sto proprio andando

di male in peggio. In questi giorni c’è anche l’ausilio, ogni

tanto, dell’ossigeno: verso sera, quando, dopo la fatica e il

peso della giornata, mi sento proprio esausto. Sto ancora

scrivendo... ogni tanto, qualche riga: la forza della volontà

mi sostiene in questo mio intento: finire di scrivere questo

manoscritto, che tratta della mia vicenda, riletta in

un’altra prospettiva; in un modo che anche a me, intanto,

forse a causa di questo dolore e di queste situazioni fastidiose

che mi impediscono di riflettere serenamente, appare

misterioso ed incomprensibile.

Penso anche di rileggermi e di rivedermi il tutto; intanto,

sono quasi alla fine di questo manoscritto: ancora

poche pagine, e il mio progetto si avvererà, quasi come

fosse il mio ultimo desiderio, da realizzare prima

di...morire. Nelle frequenti visite che ho ricevuto da parte

degli amici – Padre John, Padre David, Padre Peter, -

posso proprio dire che ora sto accettando la mia morte:

sono pronto; certo, non contento, no, no di certo naturalmente...

e la paura è sempre la tentazione primitiva che

tende a ritornare; sono però sereno, in tutta quanta la situazione.

Ora, cercherò di far di tutto per terminare le righe

di questo manoscritto, l’ultimo; e la forza di volontà mi fa

superare anche il forte dolore di questa mia schiena

appoggiata insopportabilmente, da troppo tempo, ai cuscini

sempre più duri e bagnati dal sudore della sofferenza.

Mia madre, qualche volta, si è offerta di aiutarmi a scrivere;

ma io ho sempre rifiutato: le ho detto che dovevo riuscirci

io, fin dove sarei arrivato, e quando non ne avrei

potuto più, avrei finito; e fino ad oggi lei mi ha promesso

e giurato – seguendo la mia volontà - che nulla di quest’ultimo

manoscritto verrà letto da lei; e penso che finora

abbia mantenuto la promessa, nascondendomi per bene i

fogli nel cassetto chiuso a chiave, in quel tavolino là

all’angolo, che non ho mai usato se non come deposito

degli scritti; certo, lo scrivere dal letto ora richiede uno

sforzo pressoché disumano; e intanto, ancora riesco...

Sono trascorsi parecchi mesi da quel primo giorno del

ricovero in questa Clinica; e ormai, la stanza è diventata la

mia casa; qui sono passati tanti amici a trovarmi, a vedere

questa mia situazione: quelli di Gourly, di Typaries,...

qualcuno di loro – essendo io immerso nel sonno, o troppo

stanco o dolorante – non ho potuto vederlo, e me ne

hanno solo riferito i saluti e consegnati i piccoli regali; da

Exilles è giunto, un giorno, anche Padre Pierrin con alcuni

gendarmi in licenza, ed è stato bello scorrere, col loro

aiuto, tutti quei ricordi; e dall’Eremo, varie volte e a gruppetti,

sono venute le suore, e alcuni collaboratori della

Casa di spiritualità, guidati da Padre Speir; tra tutti i

parenti, preziosa è sempre la presenza della zia Delcy che,

alternandosi a mia madre, mi faceva anche lei adesso da

madre, proprio com’era successo quando io ero piccolo e

lei, assieme allo zio, mi avevano fatto un po’ da genitori

mentre i miei si trovavano all’estero a lavorare; e poi,

Mousette, la mia collaboratrice per tanto tempo, e che da

un po’ aveva dovuto ritirarsi a casa sua, a causa dell’età

avanzata e dei suoi dolori alle gambe...e che, da sempre,

non mancava di informarsi circa la mia situazione.

Anche il Vescovo Jean è venuto a trovarmi... E ‘lei’...?.

Da un po’ di tempo ho predisposto una busta chiusa e ben

sigillata, indirizzata a suo nome; non so che fine abbia

fatto lei, dopo tutti questi anni; l’indirizzo, chissà se era

ancora quello, e se lei ancora mi ricordava... In mezzo a

tutte queste innumerevoli vicende, e tra i dolori di questi

giorni, il ricordo di lei mi ha aiutato a tenermi un po’ sollevato,

e anche a pregare là dove non ero più tentato di

farlo: pensando a lei, il pensiero scorreva da lei a Dio che

me l’aveva posta sul cammino; e dopo quei bei ricordi che

mi rasserenavano un po’, finivo sempre per pregare, per

lei e per me. Ora, mentre sto terminando di scrivere, quella

busta chiusa devo fargliela recapitare, come il mio ultimo,

ma ancora esistente segno della mia presenza; l’ho

scritto già da tempo, quello che è il messaggio da recapitarle:

ora, si tratta soltanto che arrivi a lei. ‘Lei’: non mi è

mai mancata in questi giorni; certo, né è venuta, né si è

fatta sentire... Ma io l’ho sempre vissuta qui, in me stesso.

E ora, è giusto che mi rifaccia vivo, ringraziandola con

riconoscenza, prima che io muoia.

Mentre la paralisi - o quello che sia quel maledetto

virus – sta raggiungendomi sempre più, invadendo ora la

parte superiore del mio corpo, e tutto me stesso, io tento di

concludere questo scritto... Spero di farcela...Ancora

poche righe... Nel frattempo chiamo mia madre, e le spiego

il mio ultimo desiderio; e dopo vari sforzi, e con diversi

fraintendimenti, penso che lei sia riuscita, tra le mie fievoli

e sempre più impronunziabili parole, a capire ciò che

voglio da lei: “Dunque, adesso ti ripeto tutto...– mi dice

premurosa – Io devo trovare questa ragazza – e qui abbassò

la voce, quasi vergognandosi di dire questo termine – e

devo consegnarle personalmente questa busta...Senza

dirle una parola... È esatto?”.

La osservai con lo sguardo titubante, a ricordarle che

mancava ancora qualcosa: “Ah, sì...- riprese – Non devo

aprirla, assolutamente: questo è il tuo desiderio e la mia

promessa; te lo prometto ancora: non la aprirò, e la consegnerò

al più presto a questa...” e qui pronunciò il nome di

‘lei’... E io, risentendolo in quel momento, forse complice

la stanchezza, iniziai a percorrere il mondo dei sogni,

addormentandomi.

Quando mi risvegliai, aprendo gli occhi mi trovai di

fronte il sorriso di ma madre; volsi gli occhi alle sue mani,

e poi attorno, come per cercare... “Non preoccuparti: è già

stata consegnata a lei, quella busta, poco fa: gliel’ho data

io personalmente... Beh, l’indirizzo è stato facile trovarlo,

chiedendo qua e là; e poi sai, tra mamme...” e qui le sue

parole venne mi rimandarono subito alla madre di ‘lei’, a

Madame Sauvy.

Già... sì erano intese, loro, e certamente si erano anche

parlate, certamente, e chissà da quanto tempo...ed ecco

perché adesso mia madre così velocemente aveva potuto

raggiungere ‘lei’!

“Grazie” le dissi con un fil di voce. Ora sto terminando

di scrivere l’ultima riga di questo manoscritto; un ultimo

sorriso, osservando queste parole che si esauriscono qui;

poi, depongo la biro... Ecco, ora ‘tutto è compiuto’!.